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Pierrot Le Fou – Jean-Luc Godard [1965]

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Jean-Luc le fou

Pierrot Le Fou

Ecco un altro film di Godard.

La storia c’è, ma non si vede. I sentimenti ci sono, ma non si vedono. La colonna sonora c’è, ma a volte non si sente. Ma altre volte si, pure fuori luogo.

Insomma, Pierrot Le Fou [Il Bandito Delle Ore Undici, nella tremenda traduzione in italiano] ingloba in sé tutti gli stilemi classici del primo cinema godardiano, quello che lo rese famoso all’interno della colta e oppositiva nouvelle vague francese.

La storia racconta di… un ragazzo e una ragazza che… fuggono da… poi dopo un po’ si ri-incontrano e… però, ecco non è ben chiaro se e come…

La vera narrazione in quest’opera è proprio rappresentata dal rifiuto narrativo. Il caos degli episodi è il caos teorico e sentimentale di Godard stesso, un regista che ancor prima d’essere regista è uomo, e in quanto uomo cerca d’essere regista delle proprie azioni. La presa di coscienza dell’impossibilità di essere homo faber fortunae suae porta all’apatica indifferenza e al generale distacco che a loro volta partoriscono la follia dei protagonisti, insomma tutto ciò che caratterizza il vero tema centrale del film.

L’ermetismo espressivo del regista francese trasuda da quest’opera composta di vari eventi posti in successione più o meno rapida e scanditi da chissà quale ritmo, se non da quello cinematografico, ovvero dal nulla narrativo intervallato da scene che non sono altro che la rielaborazione seria ma ai limiti del grottesco degli elementi fondamentali del cinema poliziesco o di spionaggio che tanto andava in quegli anni e per il quale il pubblico pagava il prezzo del biglietto con il sorriso sulle labbra. Ecco anche spiegata l’orrenda traduzione del titolo in italiano.

Pierrot Le Fou

Ma in realtà in quest’opera di cosciente de-strutturazione, ancora una volta, dopo i capolavori A Bout De Souffle, Vivre Sa Vie e Il Disprezzo, Godard non fa altro che burlarsi di un genere cinematografico, anzi, del Cinema.

Lui che le regole le sta reinventando se ne infischia altamente di tutta l’accademia e la trapassa con forza, la sfonda a suon di colpi di genio registico che dimostrano non solo la piena padronanza del mezzo e dell’idea, ma addirittura la capacità di creare un livello superiore di Cinema, insomma, un’opera per élite che nemmeno l’élite è in grado di comprendere.

Come sempre nei suoi film, ecco nuovamente gli sguardi in macchina, ossessivi che tornano e ritornano chiamandoci sempre in causa. E poi una macchina da presa che gira sempre un po’ per i fatti suoi [malgrado in Vivre Sa Vie sapeva girovagar meglio all’interno del proscenio/realtà] e un montaggio che sa solo lui come riuscire a rimaner unito e a dare una parvenza di unitarietà all’intera opera [malgrado in A Bout De Souffle sapeva spaziare in maniera più (innovativa?) convincente].

E la colonna sonora? C’è, non c’è, che differenza fa? Perché i personaggi parlano fuori campo alternandosi a ogni gruppo di parole?

Ciò che veramente stupisce a livello visivo in questo film è la stratosferica fotografia del fido nouvellevaguiano Raoul Coutard. Abbandonato il bianco e nero di quasi tutte le opere precedenti di Godard, qui il mastro fotografo Coutard si lancia in pastellosi azzardi cromatici che paiono esplodere sullo schermo con una veemenza impareggiabile. Non è l’espressionismo di Bergman ma una colorimetria soggettivamente obiettiva che non può essere elusa e con la quale i protagonisti e gli spettatori sono costretti ad entrare in confronto.

Pierrot Le Fou

D’altronde è sin dalle prime battute che un Jean-Paul Belmondo immerso in una vasca da bagno cita e ri-cita nomi di grandi pittori del passato che con il colore hanno lavorato e non poco. E non è forse un caso, dunque, se anche i paesaggi naturali siano inquadrati da Godard con un occhio che pare quello di Théodore Rousseau con i suoi alberi a scandire ritmicamente lo spazio, come in Sous Les Hetres del 1842.

Ancora maggiori sono le citazioni letterarie, con Baudelaire in primo piano. E se l’amore per la letteratura da parte dello stesso regista non fosse abbastanza chiaro, ci pensa Belmondo a ribadirlo verso la metà del film, sentenziando che gli acquisti di un uomo dovrebbero essere ripartiti con questa proporzione: ogni 50 libri, 1 disco musicale.

A questo modello di vita che presuppone un isolamento volontario ma indotto dalla società, nel film se ne contrappone uno di chi invece nella società ci vuole stare. È quello dell’amante di Belmondo interpretato da una viziatella Anna Karina che, come lui, anche lei non fa altro che ingannare il tempo con piccoli passatempi. Entrambi fanno la stessa cosa ma attraverso vie differenti, ma se l’isolamento di Belmondo può portare beneficio e al contempo nuocere soltanto a Belmondo stesso, l’espansività del carattere della bella Karina si ripercuote su tutti coloro che la circondano.

Pierrot Le Fou

La figura femminile ancora una volta per Godard è al centro delle vicende umane ma, con l’eccezione di Vivre Sa Vie, la donna è il pomo della discordia dell’essere umano, è l’unica distrazione dalla quale l’uomo non può esimersi dall’essere traviato.

Questo emerge con evidenza anche in un’opera come questa che del coinvolgimento emotivo ne fa una demonizzazione decadentista, ovvero esteticamente coinvolgente ma traviante essa stessa per l’esser-ci dell’uomo. Lo spettatore è tenuto a debita distanza dalla storia [ma non dalla pellicola] eppure il finale così tremendamente e atrocemente passionale pone l’accento sul profondo coinvolgimento che lo spettatore dovrebbe provare non nei confronti dei personaggi in scena, ma di sé stesso, artefice della costante de-caduta dell’uomo nell’infernale baratro dell’inconsapevole non-essere.

Il Belmondo dell’ultima scena non è un personaggio filmico, una figurina che pone semplicemente fine alla pellicola. Il Belmondo dell’ultima scena è ogni uomo che, in piena e serena inconsapevolezza pone giornalmente fine alla propria esistenza. La tardiva comprensione è l’ultimo atto del distacco dal traviante e deformante sentimento, senza il quale l’uomo sarebbe libero da ogni vincolo e da ogni ambizione di possesso.

E invece è tardi, e dopo aver definito il turismo come nuova forma di schiavitù, Godard prende le distanze da tutti, spettatori compresi, e si rifugia nel suo eremo con le sue alte pile di libri d’arte e di letteratura.

Pierrot Le Fou

La noiosissima perla che è stato in grado di regalarci con Pierrot Le Fou è per lui già passato nel momento in cui ha terminato di girarla, e lo strepitoso Belmondo accompagnato dalla sempre adorabile Karina è anch’egli già passato, andato, impazzito.

8

Danilo Cardone



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